"Il Signore lo trovò in una terra deserta… lo educò, ne ebbe cura, lo allevò, lo custodì come pupilla del suo occhio. Come un'aquila veglia la sua nidiata, il Signore spiegò le sue ali e lo prese, lo sollevò sulle sue ali…" (Deuteronomio 32, 10-11)
Questo testo biblico mi affascina sempre perché descrive l'azione educativa di Dio verso il suo popolo. Nell'immagine dell'aquila che veglia sopra i suoi piccoli, noi scorgiamo la tenerezza e insieme la forza di quell'incredibile amore di Dio, che è insieme amore di padre e di madre. E non finisce mai di sorprenderci la sublime, concretissima attenzione di questo amore: "ne ebbe cura, lo allevò", un'attenzione aperta a condurre alle mete più alte e insperate: "lo prese, lo sollevò sulle sue ali". Solo partendo da queste parole del Deuteronomio possiamo svolgere una riflessione anche su noi stessi, sul nostro essere "padri" e sul nostro rapporto con chi ci è "padre". Penso che la crisi della figura e del ruolo paterno abbia la sua radice in quella misteriosa paura del cuore che teme di affidarsi, che vede nell'altro un concorrente se non un nemico, che tende perciò a cancellarne l'immagine o a renderla evanescente. Questa paura caratterizza la cultura della nostro società occidentale e si esprime poi a livello di gruppi e di singoli. Essa ha diverse manifestazioni: dal relativismo che si accontenta di verità parziali o effimere, alla mancanza di speranza, all'incapacità di scelte coraggiose e definitive nella vita, alla paura stessa di dare la vita, fino alle tante forme più o meno gravi di conflittualità, di disagio, di devianza. È una paura di così denso spessore culturale, che può essere persino difficile prenderne coscienza. Questa profonda esperienza di figliolanza e di paternità augura a tutti voi – genitori, formatori, educatori – e a quanti condividono con voi il cammino.
Con la mia benedizione.

Carlo Maria Martini