E' vero: non ho mai avuto una frequentazione assidua con don Antonio Mazzi; non ho conosciuto direttamente le sue realizzazioni. Eppure siamo spesso accanto sulle pagine di alcuni giornali attraverso le nostre rubriche; attraversiamo le televisioni sia pure in contesti e momenti diversi; ci incrociamo nelle stazioni, negli aeroporti durante i nostri viaggi o in alcune celebrazioni religiose o laiche. E soprattutto c'è in me da sempre il fascino per la sua creatività e libertà interiore e per la sua immediatezza sincera che rende la sua parola incisiva e non alonata incertezze o di sottintesi. Mi è sempre piaciuto anche il nome biblico assegnato alla sua opera, un nome che rimanda a un evento capitale nella storia della libertà sociale e personale, umana e religiosa di un popolo, l'esodo della catene di un'oppressione. Un evento che diventa anche l'epifania del vero Dio che è il Signore della libertà nel senso pieno e totale del termine. E' suggestivo che don Antonio abbia scelto il vocabolo latino exodus per esprimere questa realtà, come aveva fatto la celebre nave degli ebrei in viaggio verso la salvezza, fuggendo dal male cieco e perverso del faraone nazista. La via che gli indica – attraverso le sue molteplici opere – a tutti coloro che devono essere liberati dalle tante schiavitù moderne è, infatti, un'avventura grandiosa, potente, non un semplice passaggio, ma un vero exodus di speranza, di luce, di rinascita.

Gianfranco Ravasi