FRAGILI, CONFUSI, DISPERATI. I GIOVANI CHE NON CAPIAMO

24/04/2017

Aguzzini, assassini. Oppure fantasmi: vittime dei più forti, ma anche della noia, delle aspettative, del web. Caino e Abele, Abele e Caino: le categorie si confondono, la psicologia balbetta, l’educazione si eclissa. C’è un mondo di giovani sani: impegnati, altruisti, coraggiosi. E poi c’è quello che terribili fatti di cronaca hanno tratteggiato negli ultimi mesi: il ragazzo che si butta dalla finestra a Lavagna per non deludere la madre, gli amici che uccidono i genitori di uno dei due a Pontelangorino per soldi, i bulli di Vigevano che violentano un coetaneo disabile, la banda di Alatri che massacra Emanuele. Tragedie incomprensibili, e che per questo fanno paura. Agli adulti, che arrivano tardi. Che non capiscono, non sanno aiutare. Perché? Chi sono questi giovani? Cosa gli succede che dipende da noi (se dipende da noi) e come intervenire per cambiare (noi e loro)? Il “salvagente” delle dipendenze – droga, alcol, tecnologie – fa acqua: non giustifica, tanto meno risponde. E così anche i luoghi tradizionali cui gli adolescenti “malati” vengono affidati – le comunità, i centri di recupero, gli istituti di riabilitazione – non bastano più. Avvenire inizia un viaggio su questa frontiera, che sta cambiando pelle. Ad abitarla in molti casi, e da decenni, ci sono figure carismatiche come don Gino Rigoldi e don Antonio Mazzi, che incontriamo oggi. Tra gli ultimi, nelle periferie geografiche, economiche ed esistenziali – il primo soprattutto a Milano e in Romania, il secondo su tutto il territorio nazionale e negli ultimi anni anche in diversi Paesi del mondo – questi due sacerdoti hanno lottato e lottano per la resurrezione dei “cattivi ragazzi”. Li incontrano, li ascoltano, li hanno visti cambiare. E adesso lanciano alla politica, alla società civile e persino alla Chiesa una nuova sfida. Necessaria per non perderli.

I tossici del Parco Lambro? Non ci sono più. O meglio, non sono più il problema, «perché a loro abbiamo imparato come rispondere». Il problema di don Antonio Mazzi è la telefonata di mezz’ora che ha appena terminato, seduto alla sua scrivania di legno logoro di Exodus, storica comunità di recupero alla periferia Est di Milano. «Questo è un banchiere. Un big della finanza. E ha questo figlio di vent’anni che non vuol vivere. Mica si droga, sai? Ha tutto: i soldi, la macchina, la scuola d’alto livello. Ma non vuol vivere perché dice che non sa amare, e che non si sente amato». Risolvilo, al telefono, un dramma così. Verrebbe da dire che, forse, servirebbe uno psicologo. Ma lo psicologo al figlio del banchiere, alla giovane étoile che vuole uccidersi perché si vede brutta, al quindicenne che ripete di non aver ragioni per vivere, non è servito.

Chiamano don Mazzi, si rivolgono a Exodus. Perché?
Perché nessun altro li aiuta. E spesso non sono capace nemmeno io, lo ammetto. Per anni ho avuto a che fare con i tossici, quello è un mondo che conosco bene: sapevamo, come comunità di recupero, rimettere in piedi chi arrivava coi segni della povertà e della dipendenza fisica. Un drogato prima o poi lo convinci a non drogarsi più. Ma con questa nuova povertà di speranza, con questa malattia che appesta tutti dentro, è difficilissimo combattere.

Prova a spiegarla. Che succede, ai ragazzi che incontri?
È come se avessero una domanda, su se stessi e sul senso della vita, che rimane lì. E che rimane lì per anni, diventa una ferita. Sentono messaggi, formule, ricette, insegnamenti, ma non incontrano qualcuno che li ascolti. E anche quando sbagliano, quando inciampano in questo non senso che li avvolge, ecco che davanti a loro trovano sempre qualcuno pronto a salvarli, ma non ad incontrarli. Questo io lo chiamo “analfabetismo”, e bada bene, riguarda noi adulti. C’è un bisogno che non capiamo, un disagio che non leggiamo. C’è una nostra povertà che appesta loro, perché è innegabile: i ragazzi di oggi hanno davanti adulti più fragili. E hanno più domande di quelle che avevano vent’anni fa, più disordinate.

Dimmi della ballerina...
Tredici anni. È venuta qui la prima volta con la madre: bellissima, intelligente, ricca. L’ho ascoltata: aveva già tentato di uccidersi due volte perché «non sono bella, guarda, sono un mostro». Poi è scappata di casa. A sera s’è presentata a Exodus. Le ho chiesto: perché sei qui? «Per come mi hai guardata» mi ha detto lei.

Come li guardi?
Spengo il cervello e accendo il cuore.

E come li curi poi? Li inserisci in un percorso in comunità?
L’altro problema è proprio questo: che la comunità come la intendevamo prima non ha più ragione d’esistere. Se sono malati tutti, di senso e di speranza, non è al chiuso che posso curarli. Non posso aspettare che arrivino. Devo andare io a incontrarli. Ecco perché anche Exodus sta cambiando, da qualche anno a questa parte: stiamo smontando le classiche comunità terapeutiche per trasformarle in Centri giovanili. Il grande progetto è arrivare ad allestirne 15, in tutta Italia. Dobbiamo arrivare prima, arrivare a tutti e arrivare nel modo più normale e adatto a loro.

E come?
Con lo sport, con le gite, con l’aiuto nei compiti. Ma anche con la musica, per dire. Qualche settimana fa, nella mia struttura di Jesi, finita la messa mi è esplosa nelle orecchie la canzone della Mannoia “Che sia benedetta”. C’erano decine di ragazzi con me, tutti ex tossicodipendenti, che si son messi a cantarla a squarciagola a memoria, qualcuno piangendo. Non era la Bibbia, io non so nemmeno se la Mannoia sia credente, ma quelle parole lì («Per quanto incoerente e testarda, se cadi, la vita ti aspetta») in loro hanno acceso un senso, una speranza, un’emozione. Questo basta, per un cambiamento. E ogni cambiamento è resurrezione. In ogni Caino c’è un pezzo di Abele, noi dobbiamo tirare fuori il buono di questi ragazzi.

Viviana Daloiso - Avvenire