DON MAZZI: «A 90 ANNI HO CAPITO CHE COME EDUCATORE DEVO RICOMINCIARE TUTTO DA CAPO»

27/07/2019

«Dobbiamo ricominciare tutto da capo». A 90anni? Pausa. Don Antonio Mazzi risponde quasi sorpreso. «Guardi», dice il fondatore di Exodus, «se ho imparato qualcosa a questa età è che per fare le cose non bisogna partire dalla testa. E nemmeno dalla pancia». Da dove allora? «Non lo so, non ho la risposta, ma le cose bisogna farle, ma non come le abbiamo fatte finora. Poi c’è un’altra cosa che ho imparato: che l’anima non ha età. E l’anima conta più del corpo». Il 30 novembre, don Antonio, come lo chiamano tutti qui nella cascina del parco Lambro di Milano, dove abita e lavora, festeggerà le 90 candeline.

Sono tante, don?
Sono anni. Bisognerebbe avere un concetto diverso del tempo. Dobbiamo uscire dai luoghi comuni: a 18anni si fanno alcune cose, a 30 altre, a 40 altre ancora e così via. Il tempo non è un valore. In qualsiasi tempo tu sia devi giocarti la partita. Tutta la partita si gioca qua, adesso. Gesù Cristo si è giocato tutto fra i 30 e i 33 anni. Badate che Gesù non ha mai parlato del tempo. Mai. Il Giudizio universale non è la fine del tempo, è l’incontro con. È un inizio. Dobbiamo buttare via il calendario. Perché a 90 anni abbiamo la stessa efficienza, dal punto di vista spirituale, che si ha a 30 o 40 anni. L’anima non invecchia. L’amore non invecchia. La speranza non invecchia. E sono questi i valori per cui viviamo.

Quanto spazio ha il futuro nei suoi pensieri?
Ho sempre accettato il rischio del futuro. Perché il futuro più è complicato, più è futuro, più è cristiano. Non dimentichiamo che Cristo ha dichiarato il momento della fine, la morte, il momento dell’inizio. Ha ribaltato un paradigma. La più bella definizione di Dio rimane quella ebraica: io sono colui che è.

Nel 2017 lei ha scritto un’autobiografia, “Amori e tradimenti di un prete di strada”, in cui più che raccontare la tua storia, si dava spazio ai suoi dubbi, tradimenti, rabbia. Perché questa scelta?
La mia anima è piena di questi sentimenti. Ancora oggi. Ed è normale. Noi non siamo gli uomini dell’insegnamento.

Detto da una persona che ha dedicato la sua vita all’educare i cosiddetti ragazzi difficili rischia di suonare male…
In questo periodo sto approfondendo la figura di Giuda. Il problema è che noi abbiamo dato al male una definizione materiale, mentre il tema non è il male, ma il maligno. E la malignità può stare dentro tutti. Ripeto: tutti. Anche un atto buono può avere riflessi maligni. La mia proposta è di cancellare per un attimo la parola “sacro” e di considerare il Vangelo come la storia di un uomo, la storia dell’uomo. Io dico: dimentichiamo le istituzioni, lasciamo stare la Chiesa e torniamo all’uomo. Questo è il mio cruccio, oggi. Lei negli anni 80 entrava al parco Lambro per stare accanto ai tossici di allora. Perché oggi non c’è un don Mazzi a Rogoredo? Dove sono i preti di strada?
Propedeutica alla fede c’è la povertà. Quello che ti porta alla fede è la povertà. Noi, anche i preti, abbiamo cancellato la povertà. La prima beatitudine è: «Beati i poveri». Lei però mi chiedeva di Rogoredo. Lì stanno sbagliando tutto, perché la stanno affrontando dal punto di vista legalitario e punitivo. E mi riferisco alle forze dell’ordine, ma anche ai servizi pubblici in generale. Noi quando incontriamo i ragazzi incominciamo a parlare. Altrimenti si creano i ghetti, gli zoo di Zurigo o Berlino.

Lei a Rogoredo c’è entrato?
Tenga presente che uguali a Rogoredo, solo fra Milano e Varese ci sono almeno altri 4/5 parchi della droga. Comunque sì, ci sono stato. Anche da solo, per conto mio. E ho incontrato un ragazzo di 14 anni. Mi dice: «Non sono mica un coglione, ci vengono tutti, perché non ci devo venire io». Quella mattina una dose di eroina la vendevano a 3 euro. Siringa compresa. Perché l’eroina, gli ho chiesto. «Perché voglio le droghe proletarie, non voglio le droghe borghesi». Mi ha risposto così. A 14 anni.

Cosa si risponde a uno così?
Non lo so. Sono rimasto secco. Vuol dire dover ricominciare tutto da capo. Non significa aver sbagliato tutto in passato, ma bisogna ripartire. L’uso e la mentalità sono profondamente cambiate. Non possiamo andare a Rogoredo con la mentalità con cui 30 anni fa si andava al parco Lambro. Allora in qualche maniera il complesso di colpa c’era. E c’erano anche la povertà e la sofferenza. Qui c’è il gioco. Qui c’è il gioco di “fare il proletario”. C’è il divertimento. Questi ragazzi vanno lì e pensano di divertirsi. Questi pensano di essere loro “normali”. Non noi che non ci facciamo.

Un’ultima domanda personale: ha paura della morte?
Beh, diciamo che voglia di morire proprio non ne ho… Poi naturalmente non sta a me decidere.



da “Vita non profit”