Non vedo nulla di straordinario e di rivoluzionario nella cerimonia di preghiera che venerdì scorso il parroco e i fedeli hanno voluto fare nella chiesa di Sant’Idelfonso, per ricordare il Dj Fabo. La mamma e la fidanzata l’avevano chiesto e il parroco ha fatto ciò che ogni pastore di anime dovrebbe fare.
La chiesa è sempre e per tutti la casa del perdono, della misericordia, dell’amore. Ad altri giudicare, a noi pregare. Davanti ai pastori vari non esistono pecorelle di serie A e di serie B e nel Vangelo, per una sola pecora smarrita, il pastore ha lasciato dentro l’ovile le novantanove ed è partito alla ricerca dell’unica.
In cascina io e miei avevamo già, durante la Messa, ricordato Fabo perché altre volte avevamo pregato per casi ancora più dolorosi e delicati. Un giorno, alla radio, mi è scappata una frase che non è piaciuta ad alcuni anonimi. La frase era: “La clemenza vale più della giustizia”.
Capisco che a certi fedeli e preti frasi come queste potrebbero scombussolare le loro anime, ma per preti come me, che fatti e dolori simili li vivono quasi quotidianamente, pregare per Fabo mi pare la cosa più giusta che i compaesani potevano fare.
Mi dispiace che non sia stata accolto il desiderio di don Antonio per arrivare fino alla celebrazione di una Messa in suffragio. Però quello che non è successo venerdì, auspico possa accadere fra qualche settimana. Questi episodi riportano la chiesa al posto giusto, a fare - come direbbero i nostri vecchi - il suo mestiere.
Non sono assolutamente a favore della legalizzazione dell’eutanasia e non voglio nemmeno inserirmi nelle varie proposte che si vanno intersecando tra gli scranni del Parlamento.
La vita è sacra. È il più grande dono che Iddio ci ha fatto. Le malattie e le gravi disgrazie che possono minare profondamente la nostra salute, vanno affrontate, assistite e obbligano tutti a fare l’impossibile perché si possano vincere. E se la morte avrà il sopravvento, dovrà essere non una morte cercata, ma una morte accettata, possibilmente circondata dall’affetto di parenti e amici.
Certe volte però la disperazione nella quale la malattia ha ridotto il paziente può toccare confini ed esasperazioni impossibili da giudicare. Il suicidio rimane suicidio. Ma lo spazio al dolore, alla preghiera, alla misericordia e al perdono non solo può rimanere, ma può essere sollecitato e impreziosito dalla pietas cristiana.
Don Antonio Mazzi