Noi facciamo parte di quella popolazione che la gente chiama “vecchia”. Solo alcuni, o per cultura o per educazione, anziché chiamarci vecchi ci chiama anziani. Però il guaio più grosso non dipende dagli altri, ma da noi stessi, perché non abbiamo capito la differenza sostanziale che passa tra la definizione di vecchio e quella di anziano. Lo spiego a voi, così lo spiego anche a me. La vita, per ciascuno è un romanzo. E se la viviamo come un romanzo, riusciamo a dare ai vari periodi del nostro ieri, il fascino, l’avventura, i toni drammatici, amorosi, allegri, faticosi, tiepidi, insperati dei nostri ottant’anni. Siamo comunque arrivati all’ultimo capitolo. Ma nell’ultimo capitolo per un giallo, si disvelano i misteri, per un libro di cultura, si sintetizzano le idee più vere di tutto il libro, per una epopea come la Bibbia, o la Divina Commedia o l’Odissea, si chiude qualcosa di meraviglioso, di poetico, di mistico.
Noi non siamo epici, ma biografici. Se ci pensiamo vecchi, il romanzo chiude e tutto si concentra sulla parola “FINE”. Sta qui l’interpretazione più dolorosa della nostra vecchiaia. Alzarsi ogni mattina, andare a letto ogni sera, e stare all’osteria o nella casa di riposo o seduti sulla poltrona tutto il giorno a fare le parole crociate in attesa della FINE. Mi rifiuto di pensarci così, perché anch’io ho novant’anni. Non vivo solo, perché i miei mi hanno voluto “a casa”, non perché sono vecchio, ma perché vogliono vedermi, sentirmi, ascoltarmi, convinti che l’ultimo capitolo è il più importante, e non sempre è il più breve. Questo è il messaggio che voglio spedire a chi si sente solo o perché è solo veramente o perché è solo anche tra i figli, i nipoti o gli anziani della casa di riposo.
E poi c’è un’altra cosa che vi correi dire. È un po’ complicata, ma spero che la vogliate capire. Nessuno di noi muore del tutto. Lascia pezzi di sé di grande valore. E sono sangue del suo sangue, saggezza della sua saggezza, fatica delle cose fatte, dolori delle cose non riuscite o solo sperate, abbracci e baci mai dimenticati. E questa è la parte migliore. È come il gusto di dolce che rimane dopo aver mangiato la colomba o il malizioso “bruciore” dopo aver masticato senza accorgersi il peperoncino, nascosto dentro la spaghettata. Se poi volete che vada fino nel profondo, vi garantisco che l’amore, per un motivo umano o spirituale, non muore mai. E noi siamo vissuti di amore. Vi ho convinto? Comunque, sorridete lo stesso, perché un amico ce l’avete e si chiama don Mazzi.
Don Antonio Mazzi