LO ODIAVO PERCHÉ MI AVEVA RUBATO PAPÀ, POI LUI HA CERCATO ME

01/06/2020


Quando ero bambino, di Dio non volevo nemmeno sentire parlare. Sì, ho odiato Dio. Avevo perduto il mio papà e per consolarmi mi dicevano: “Dio l’ha voluto in Cielo accanto a sé”. Oppure: “Dal Cielo, dove c’è Dio, veglierà su di noi”. Tutte frasi che, invece di placare il mio dolore, mi facevano ancora più soffrire. “È stato Lui allora a portarmelo via”, pensavo. E così sono stato arrabbiato con Lui molto a lungo».
Sono parole forti, dure, schiette. Parole che colpiscono. E che sorprendono, perché sono pronunciate da un prete famoso e amato: don Antonio Mazzi, novanta anni, creatore della Fondazione Exodus, che ha aiutato migliaia di persone in difficoltà.

«La prima persona a parlarmi di Dio quando ero piccolo è stata mia di madre Maria, che tutti i giorni, alle cinque di mattina, portava me e mio fratello alla prima Messa del giorno a San Massimo, il paese alle porte di Verona in cui sono cresciuto. Mia madre ci parlava di Dio continuamente. Anche perché nella sua vita, a parte noi figli, c’era solo Lui».
In che senso?
«Nel senso che mia madre era sola, perché era rimasta vedova da giovane: mio padre Guglielmo, ferroviere, se ne è andato prestissimo, per una broncopolmonite, quando mia madre era incinta di mio fratello, che ha chiamato Guglielmo in suo ricordo. Quando il mio papà è morto io avevo solo quindici mesi: non mi è rimasto nessun ricordo di lui, neppure una fotografia, e questo rimpianto mi accompagna ancora adesso. Mia madre non si è mai risposata e ha tirato su noi due figli lavorando come ricamatrice per mantenerci. Eravamo molto poveri, abbiamo sofferto il freddo e la fame. Per reagire alle difficoltà mia madre si è aggrappata a Dio, e ha fatto di tutto per trasmettere la sua fede a noi bambini. Ma io, come le ho detto, l’odiavo, o quantomeno Dio mi era antipatico».

Sì, me lo ha detto all’inizio e mi ha sorpreso...
«Sì, non gli perdonavo di avermi portato via il papà. E sono stato arrabbiato con Lui a lungo, sono cresciuto con questa rabbia, che mi è rimasta anche da adolescente, anche se ho passato l’adolescenza in mezzo ai preti, al Collegio Arcivescovile di Verona. Non mi piaceva il Dio di cui mi parlavano i preti: un giudice severo, che imponeva solo regole. Vuole una confidenza? Il “Dio dei preti” continua a non piacermi nemmeno adesso».

Quando ha fatto la pace con Dio?
«L’ho fatta di colpo, a ventidue anni, quando l’ho incontrato. E in quel momento ho capito che, anche se fino ad allora non avevo fatto altro che scappare da Dio, Lui mi aveva inseguito fino a quando mi ha trovato. E posso dirle che Dio è entrato nella mia vita come un grande spavento».

Uno spavento? Ce lo vuole raccontare?
«Tutto è successo nel novembre del 1951, durante la terribile alluvione del Polesine, quando il Po ha rotto gli argini, seminando morte e distruzione nella provincia di Rovigo. Io, che allora studiavo Lettere all’università, mi trovavo casualmente in quella zona. I pompieri hanno lanciato un appello: “Ci sono delle persone sui tetti, perché le loro case sono sommerse: cerchiamo dei volontari che vengano con noi in barca a salvarle”. Io ho detto subito: “Vengo io”. E così sono salito su quella barca, sballottata dal fiume in piena e dalla tempesta. E ho visto che, tra le persone che si erano rifugiate sui tetti per cercare scampo, c’erano dei bambini che piangevano e chiedevano aiuto: le loro mamme e i loro papà erano annegati. Era sconvolgente, tutto mi terrorizzava: la notte, l’urlo del Po in piena, le grida dei pompieri, il pianto dei bambini che caricavamo sulla barca. Ed è stato in quel momento che ho incontrato Dio».

Mi sta dicendo che, in quel momento di terrore, ha “sentito” Dio nell’urlo del fiume?
«Dio non era nell’urlo del fiume: era nel pianto dei bambini. Quei piccoli orfani, rimasti senza papà, senza mamma, senza casa, mi hanno fatto una pena infinita. “Io ho perduto solo il mio papà, ma questi bambini hanno perduto tutto”, ho pensato. Ho provato per loro un dolore immenso, ma anche un amore immenso. E, di colpo, ho capito perché Gesù, parlando dei poveri, diceva: “Tutto quello che avete fatto a loro lo avrete fatto a me”. Voleva insegnarci che Dio è nelle persone che soffrono, e nell’amore che noi diamo loro. E io sono stato folgorato da un pensiero nuovo».

Quale?
«Mi sono detto: “Chi resta senza genitori da bambino soffre per tutta la vita. E io voglio farmi prete per diventare il papà di tutti”. E così, con grande stupore di mia madre, sono entrato in seminario e mi sono fatto prete».

Da allora Dio è diventato suo amico?
«Sì, ma fra alti e bassi».

Anche da prete?
«Sì, intorno a me vedevo cose che non mi convincevano. Poi si vede che Dio si è stancato e mi ha dato un altro segnale».

Quale segnale?
«Nel 1979, avevo quarantanove anni. Sono stato mandato a gestire un centro scolastico al Parco Lambro di Milano. Allora il Parco Lambro era il “regno” degli spacciatori e io mi sono accorto subito che la droga mieteva vittime tra i nostri ragazzi. E, appena ho provato a convincerli a smettere, mi sono ritrovato uno spacciatore che mi ha puntato il coltello alla gola».

Addirittura un coltello alla gola... E non ha avuto paura?
«Altroché, se ho avuto paura. Ne ho avuta tanta che il giorno dopo, durante la Messa, ho raccontato l’accaduto e ho detto: “Me ne vado”. Ma una suora, una suorina anziana, è venuta da me e mi ha detto, seria seria: “Don Antonio, lei non se ne deve andare: quel coltello che le hanno puntato alla gola è una ‘chiamata’ del Signore”. Mi sono vergognato della paura che avevo avuto. E mi sono reso conto che Dio aveva l’abitudine, ogni volta, di manifestarsi nella mia vita così: o con un dolore come quello che avevo provato da bambino, o con uno spavento. Così ho scelto di non scappare: ho dato vita alla Fondazione Exodus».

Quella volta il suo rapporto con Dio è diventato sereno?
«Sereno? Lei sbaglia di grosso. Litigare con il Padreterno è il mio atteggiamento normale. Anche a novanta anni, ci litigo e poi faccio la pace, proprio come un figlio adolescente fa con suo padre. Mi arrabbio con Dio ogni volta che vedo ingiustizie e sofferenze, ma poi, ogni volta, capisco che Lui è nei sofferenti. Dio lo si trova sulla strada più che in chiesa. Anzi, in chiesa faccio fatica a trovare Dio. Sulla strada, invece, non ho mai fatto fatica a trovarlo. E uno dei motivi per cui papa Francesco mi piace tanto è il fatto che anche lui cerca Dio sulla strada, tra la gente che soffre».

Lei come prete crede, è ovvio, nell’Aldilà, in un’altra vita. O no?
«Io so, per fede, che la vita non finisce quaggiù. Ma non so che cosa c’è dopo. L’unica cosa che so è che a me piacerebbe incontrare finalmente mio padre».

Quindi più che credere nell’Aldilà come lo descrivono gli altri preti, con il Paradiso, l’Inferno e il Purgatorio, lei spera che ci sia un Aldilà soltanto per trovare il papà che le è sempre mancato? Mi perdoni, don Mazzi, ma è sorprendente, detto da lei. A questo punto non posso fare a meno di chiederglielo: è possibile che il Dio, in cui lei crede, sia, in realtà, il padre che le è sempre mancato?
«Io non ho detto che non credo al Paradiso e alle altre cose che il Catechismo insegna sull’Aldilà: dico solo che queste cose sono un grande mistero, qualcosa che in questa vita non possiamo capire. Quanto al resto, in parte può essere vero che in Dio ho cercato un papà, tanto è vero che la preghiera che amo di più è il Padre Nostro. Ma Dio non è un’illusione, non è il “fantasma” del papà che è mancato alla mia vita: è infinitamente di più. Dio è la speranza, Dio è l’accoglienza, Dio è la comprensione, Dio è la misericordia. Certo, Dio è difficile da capire. Ma un cristiano deve avere il coraggio di mettersi tra le braccia di Qualcosa che non si capisce. Ormai ho imparato che, ogni volta che mi sembra di capire Dio, quello è un momento in cui sto sbagliando tutto. Ho bisogno che Dio rimanga per me qualcosa di misterioso: e quindi, anche per quanto riguarda l’Aldilà, aspetto la sorpresa».

Oliviero Marchesi su Dipiù n.21