Semplicità e amore: questo mi ha lasciato quella grande donna

04/01/2016

La ricordo, come fosse oggi, seduta in fianco a me, piccolina, magra come un fuscello, con il rosario in mano. Era il primo dicembre del 1993: giornata mondiale contro l’Aids. Abbiamo insieme animato una tavola rotonda a Roma, nella sede degli industriali.
Allora il fenomeno era molto più sentito di oggi e se ne discuteva con molta più serietà e impegno. L’auditorium era gremitissimo e nelle prime file, tra le autorità, c’era anche Monsignor Ruini. Nel pomeriggio abbiamo inaugurato, sempre in zona, con il prof. Aiuti, una comunità per giovani colpiti da quella micidiale malattia.
Come sempre, i santi sono già santi senza bisogno di spendere centinaia di migliaia di euro per commissioni e mance varie.
La chiesa dovrebbe tornare alla semplicità anche in questi eventi. Quando poi si tratta di persone come Madre Teresa che hanno vissuto nella precarietà assoluta, nella donazione totale agli altri, che mai hanno voluto particolari riverenze, certamente darà molto fastidio quanto avverrà, in modo solenne, fortemente pomposo e mondano nelle cerimonie di santificazione. Dico mondano perché attorno a questi eventi religiosi, purtroppo, spesso c’è chi trasforma tutto in affari, interessi e ipocrisie.
Madre Teresa verrà proclamata santa, per la chiesa cattolica, avendo guarito dal cancro in modo giudicato scientificamente inspiegabile dai medici della Consulta della Congregazione dei Santi, un fedele della diocesi di Santos.
E qui torno alle regole della nostra chiesa. Cosa sarà mai una guarigione, anche se straordinaria, rispetto all’amore sconfinato di questa donnina fragile verso i poveri del mondo?
E per mondo intendo proprio mondo perché l’ha girato tutto, perché le sue sorelle sono nei luoghi più poveri e perché ha trasformato un pezzo di Calcutta nella “città della speranza, della gioia, della carità”.
Vivere la fede, la speranza, la carità, virtù cosiddette teologali, come le ha vissute lei, dovrebbe obbligare la chiesa “al santa subito”, senza attaccarla alle pareti della facciata di San Pietro e senza spendere soldi che, ben volentieri, avrebbe usato non per lei, ma per i più poveri.
Ritornare alla fede genuina, popolare, esplosiva, autentica, come ai tempi nei quali erano le piazze a fare i santi e non le commissioni pagate e lontanissime dalle vere emozioni e venerazioni.
Io l’ho vista due volte, sono sempre stati incontri brevi e silenziosi. Però dopo aver camminato con lei tra le camerette della nuova casa per ammalati di Aids, in zona Parioli, la sera del primo dicembre mi ha stretto la mano. Nient’altro!
Eppure quel saluto inspiegabilmente fraterno ce l’ho ancora qui nel cuore, negli occhi e, se non esagero, nella mano. A me basta questo per ricordarla, imitarla, invidiarla.

Don Antonio Mazzi