“ERAVAMO MACCHINE, DOBBIAMO ESSERE UOMINI”

10/04/2020


Quando finirà la quarantena e potremo viverci abbracciandoci, bevendo una birra insieme, andando tra la folla a goderci un concerto, lo faremo come lo abbiamo sempre fatto o scatterà quel qualcosa che tutti stiamo aspettando? Quanto ci resterà del cosiddetto amore o della cosiddetta politica che avevamo vissuto prima del virus? Io, da figlio della piazza, vado come sempre per vie poco elaborate e più popolari. Mi domando: ma ieri c’era l’amore, c’era la politica, la famiglia, le pari opportunità, la vita comunitaria e solidale? Se c’erano, c’erano nei fatti o erano solo dichiarate dalle formule più o meno parapolitiche, confermate dalle immancabili ricerche? Perché niente oggi è vero se non esce la qualche percentuale elaborata da qualche centro specializzato. Quello che vive la gente, quello che sente, quello che gode e quello che soffre per essere vero deve essere filtrato. Il popolo serve per offrire dei numeri.

Io faccio parte del popolo, odio i numeri, soprattutto quando i numeri valgono più delle esperienze, della quotidianità diretta, calda, appena sfornata dalla strada o dal quartiere. Io spero tanto che domani, quando apriremo le porte di casa, riusciremo a portare tra la gente le realtà che avevamo perso. Cioè che quelle quattro o cinque parole necessarie per vivere, vengano riaccese perché di loro esistevano solo le ceneri. E le parole, come uomo, donna, relazioni, politica, educazione, solidarietà, libertà si sentano nell’aria e si vedano nei gesti. E una volta riaccese queste parole, le Banche esistano per togliere a chi ha di più e per dare a chi ha di meno, e sparisca la burocrazia. Per arrivare a questo, ciascuno di noi deve essere educato a godersi il mondo che ha dentro. Noi l’abbiamo chiamato anima, per il bisogno che abbiamo sempre avuto di tagliare a fette quello che il Creatore ha voluto unito. Perciò le mani serviranno per lavorare e per accarezzare, non perché abbiamo l’anima, ma perché siamo uomini. Gli occhi serviranno per leggere come per fermarsi davanti a un povero che soffre. Il corpo, tutto, sarà una sinfonia di emozioni che esploderà nelle oliverture, come negli “Adagi”, negli “Inni alla Gioia” o ai “Dies Irae” di Verdi e non solo un contachilometri.

Ieri eravamo mezzi uomini e mezze macchine produttive, dotate di tecnologie, sempre più raffinate, ma con l’unico scopo di produrre. Il domani sarà vero se da macchine torneremo creature, figli del mondo, col sorriso, con la parola sempre appena nata dentro, contenti del necessario per vivere, ma soprattutto vogliosi di stare insieme, perché solo insieme diventiamo interi, completi, maturi, umani. Insieme, come voce del verbo esistere. Questo virus può essere interpretato così? E la nostra storia può tornare semplice, autentica e come è stata travolta, in pochi giorni, da un millimetro di virus, senza tante manfrine possa rimettersi sulla giusta strada? Finisco, con alcuni versi di Rossana Murray, scrittrice e poetessa brasiliana, che quando non lavora con bambini handicappati, corre a rifugiarsi nella sua casa senza luce nella foresta, confinante con il Parco nazionale, nel Sudest brasiliano: “Qui seduta, in questo inizio di secolo, come sulla prua di una nave, sotto l’oceano foderato di alberi decapitati, tutto si sgretola: il cielo dove prima ardevano sogni, non è altro che un immenso vuoto dove i morti cercano le loro voci. Chissà se in qualche ampolla si trovi ancora un frammento di stella e il panico si plachi”

E il panico si placherà il giorno che il NOI arriverà prima del prodotto, del profitto e dei confini dettati dal peso specifico del potere

Don Antonio Mazzi - Corriere della Sera

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