C’era una volta…ma c’è anche oggi, perché questa è una storia che si ripete.
C’era una volta un ragazzo di dodici anni, che si chiamava Thomas Edison, che un giorno tornò da scuola portando una lettera scritta dal suo insegnate. La madre lesse quella lettera, si commosse e la rilesse ad alta voce al figlio: “Vostro figlio è un genio, e questa scuola è troppo piccola per lui; qui non abbiamo insegnanti idonei alla sua formazione. La preghiamo di istruirlo lei personalmente”.
Passarono gli anni e Thomas divenne un grande inventore e un grande imprenditore.
Un giorno, ormai adulto e all’apice del suo successo, mentre rovistava tra le cose di famiglia trovò quella lettera, la prese e la aprì. C’era scritto: “Vostro figlio ha lentezza nell’apprendere dovuto a un ritardo mentale. La preghiamo vivamente di non mandarlo più nella nostra scuola”.
Il mondo della scuola è un mondo molto complesso, articolato, stimolante. Come Fondazione Exodus abbiamo per anni lavorato nelle comunità dove accogliere ragazzi con un disagio specifico, ma anche le comunità col tempo sono cambiate, le regole sono cambiate, e siamo cambiati noi. Poi abbiamo aperto i centri di ascolto, i centri diurni, le unità di strada, e chi vi accede - si sa - ha “quel problema”, “quel bisogno”.
Poi ci siamo detti: proviamo ad incontrare i ragazzi nel loro mondo più quotidiano, quello dove passano almeno la metà del loro tempo, cioè a scuola. E in quel mondo tutte le esperienze educative precedenti si sono incontrate perché le attività coi ragazzi, nelle aule scolastiche, sono diventate comunità, strada, ascolto, prevenzione, aggregazione.
È uno spazio nuovo, che comporta la fatica di “farsi spazio”, perché l’educatore non è l’insegnante, ma in fondo insegna, anche se in una maniera diversa. Non è compagno di classe, ma in qualche modo si fa compagno. Non è psicologo, ma passa molto tempo ad ascoltare. Non partecipa ai consigli di classe e non mette voti, ma apre possibilità di apprendimento a chi resta sempre un po’ indietro.
I nuovi documenti programmatici sulla scuola definiscono in modo chiaro l’urgenza di sviluppare le espressioni creative, le didattiche laboratoriali, l’innovazione e il coinvolgimento, ma poi cosa significa tradurre tutto questo nel concreto? Cosa succede se uno studente si presenta all’esame di maturità con una chitarra in mano per raccontare attraverso la “sua” musica la bellezza della poesia di Leopardi? Cosa succede se qualche piccolo Edison “lento nell’apprendere” scopre che è più facile capire la matematica costruendo qualcosa con le sue mani invece di imparare una formula a memoria? Cosa succede se un ragazzo con un “disagio sociale” scopre la differenza tra melodia e armonia perché ha imparato a suonare INSIEME agli altri e ha scoperto così cosa vuol dire far parte di un gruppo?
Peccato che queste direttive ministeriali siano tutte concentrate nell’offrire proposte “extra curriculari”, nel senso che tutto quello che fa parte di una sperimentazione didattica va fatta in orario non scolastico, cioè nel pomeriggio, quando la maggior parte degli studenti non ha più voglia di tornare a scuola, o non ha i mezzi per tornarci. Così il messaggio che passa è in parte contraddittorio: la scuola è quella che si fa in classe e in orari canonici, il resto è in più, o è altro.
Questa forse è la sfida, la sfida del crescere e dell’apprendere, la sfida del cambiare, ed è davvero molto interessante se vogliamo essere sul serio quello che continuiamo a dire di voler essere: comunità educative che sanno inventare e reinventare una scuola mai “troppo piccola per lui”.