Può esistere un dio delle periferie? Se c’è, lo amo da morire, perché è un dio piccolo, incerto, titubante, che ti risponde male come rispondono male tutti gli abitanti delle periferie. Non perché sono ignoranti, cafoni o malnati, ma il loro vocabolario è questo. Potrebbe anche tacere. Ma se tacesse sarebbe peggio.
Il dio delle periferie è il dio della domanda, della casa sul marciapiede, delle famiglie distrutte. È insieme il dio della tragedia e della dolcezza. Dio, diventando Cristo, ha scelto la “periferia”, il deserto, la grotta, la strada, la barca, il profumo della prostituta.
Anzi, per dirla più vera e meno teologica, Cristo è la periferia, è la strada. Non è il tempio e nemmeno va al tempio. Si accontenta di essere parola, e non basilica. Frequenta la gente che lo ascolta per strada, che lo incontra di notte: la vedova, il cambiavalute, la pecorella smarrita, il figliol prodigo, il giovane ricco, la vedova di Nain, i pescatori.
Il Vangelo è il libro della periferia; insegna come evitare le affabulazioni dei farisei, le ipocrisie dei dottori della legge. Per citare Daniel Pennac, “Cristo ha evitato la confisca della parola”. E per non correre rischi, l’ha addirittura incarnata, l’ha mangiata trasformando la parola in ciascuno di noi.
La sua missione si concentra sulla cosa più semplice, l’unica creativa: liberare le persone, liberando la loro parola. Ha seminato la parola e, da lì, ne è uscito il pane che genererà la “notizia nuova”.
Con un “fiat” Dio ha fatto il mondo; Cristo, diventando Verbo, l’ha rifatto. La Creazione del mondo e la notte di Natale si equivalgono. Allora, con una parola, Dio è diventato il Signore. Ora, con una parola, è diventato il povero.
Non solo Cristo è diventato parola, ma ha voluto che la parola più forte e dolce insieme, la possedessero i miti: l’arma dei miti. La parola più potente, quella che perfora le tenebre, non viene dall’alto, ma emana, sbalorditiva, dalla terra e dal camminare tenace degli ultimi.
La parola più intensa diventa pace. Ha come vincenti i fuggitivi e promana dai dodici camminanti della nuova carovana evangelica; da quella carovana che incominciò chiamandosi Exodus, e che continua chiamandosi “Popolo”.
Dobbiamo cercare un Dio e un uomo nuovi, credibili, capaci di sedurci, di rapinare i nostri sentimenti sepolti dalle ceneri dei templi… moderni. Il Dio nuovo, non facciamolo passare dalla teologia, dalla catechesi, dall’etica… ma dalla periferia.
Il Dio delle periferie non solo è uomo tra gli uomini, ma è anche POESIA, cantico, pellegrino.
Purtroppo, solo adesso, vecchio, riesco a capire che il Vangelo è un testo di poesia, è la storia di un uomo che accende lampade, fiamme, beatitudini, parabole, parole dal monte, che cena a casa di Lazzaro, che nel cenacolo mangia con il pane e il vino, che ama i gigli di campo e veste gli uccelli del cielo.
Cristo è tutto poesia e periferia: il monte, il mare, la strada, l’albero del fico, la conversione di Zaccheo, il discorso notturno con Nicodemo, con la samaritana e i tre “Pasci… Pasci… Pasci…” ripetuti sulla spiaggia, dopo la pesca miracolosa.
Che cosa ho voluto raccontarvi dichiarando che se vogliamo ritrovare Cristo dobbiamo tornare in periferia? Il Vangelo non è teologia, non è nemmeno storia normale. È la storia dell’uomo “abbondante”, perché ha circondato la sua fragilità non da dottrine, ma da avventure, cammini, eclissi, esodi, perforazioni di cuori, perdoni inspiegabili, parabole epiche.
Parlandovi del Dio delle periferie, intendevo questo.
don Antonio Mazzi su “Avvenire – NOI in Famiglia”