LA CASSETTINA DI LAMPONI E GLI OCCHI PIENI DI FELICITÀ

26/06/2020


Credo che sia passato il periodo o, meglio, la stagione che prevedeva la salvezza del mondo tossico attraverso le comunità terapeutiche. È rimasto il problema delle dipendenza. Ha assunto sfumature, modalità, sostanze sempre diverse, ma l’approccio al problema va affrontato in modi totalmente diversi.

Quest’anno noi prevediamo, appena l’altra “disgrazia” lo permetterà, carovane, laboratori artistici, attività all’aria aperta, con le distese di mirtilli e i lamponi, i viaggi in mare con le nostre due barche a vela che abbiamo all’Isola d’Elba. Giorni e notti in mare con gruppi di adolescenti! La natura, soprattutto con la nuova popolazione di adolescenti, è maestra, poesia, felicità.

Mi hanno portato ieri, in Cascina a Milano, alcune cassettine di lamponi, ragazzi che fino a poco tempo fa passeggiavano a Rogoredo o in luoghi molto peggiori. Avevano gli occhi pieni di felicità. Incredulo, pensando alle riuscitissime commedie messe in piedi da questi ragazzi, mi hanno quasi preso per il maglione, gridandomi dentro all’orecchio: “C…, qui nessuno recita. Siamo veramente felici! Lo sai, caro prete, che la terra, gli odori della terra, questi piccoli frutti, sono la nostra salvezza. Dalla mattina alla sera, senza che nessuno ci butti fuori dal letto… ma ci pensi, che io, a malapena riuscivo ad alzarmi a mezzogiorno ed oggi salto fuori dal letto alle sei del mattino!? Dobbiamo tornare a parlare con le piante, con i fiori. Noi, lavorando, cantiamo. E tu, quando, mangerai questi lamponi, ricordati di noi, che siamo tuoi figli e dimenticati in fretta della parola “comunità”. Qui siamo a casa nostra”.

Ho riportato, alla buona, uno dei tanti incontri che in questi giorni, dopo la quarantena, ho fatto con i ragazzi del nuovo mondo dell’emarginazione.

Aggiungo quest’altro episodio. Siamo all’Isola d’Elba -La Mammoletta-, una specie di piccolo campeggio. Parla Ofelia (nome di comodo):

“Se penso ai miei primi mesi alla «Mammoletta» la prima sensazione che affiora è un calore che mi avvolge, che mi riempie lo stomaco, il petto. Mi si scioglie dentro una tenerezza infinita per quelle prime settimane in cui goffa, quasi grottesca con il mio anello al naso e il mio modo di fare «da strada», da ragazza abituata a «badare a se stessa» (!) affondavo letteralmente sulle spalle di Marta (l’educatrice) e mi abbandonavo a quel bene che arrivava, di cui avevo una fame tremenda...

Poi i pianti interminabili in ufficio, la convinzione che il personaggio che mi si era appiccicato addosso fosse ormai parte inseparabile di me... le litigate con Stani, che con le sue «provocazioni» mi aiutava giorno dopo giorno a sgretolare quella maschera così dura da far cadere... e poi la conquista sofferta e gioiosa del mio scoprirmi donna poco a poco, delle nottate in mare con il “Bamboo”, del mio piccolo posto nel mondo, che non sembrava più il luogo inospitale di un tempo, ma il luogo delle avventure, degli incontri, delle strade da percorrere. Sogno qualche tipo di “villaggio” dentro al quale possano vivere ragazzi di ogni tipo, che hanno bisogno di aria, di amicizia, di autostima e di bellezza”. Stupendo! Peccato che per fare queste cose occorrano sempre quei quattro maledetti soldi.

Invece, finisco, con una cattiveria: E se una volta tanto, prendessimo per la cravatta alcuni cinquantenni, più o meno altolocati e portassimo loro in comunità? Perché di questi non parliamo mai?

don Antonio Mazzi su “La Repubblica”