Sempre più di frequente mi arrivano madri disperate a causa delle conseguenze nate da questo lungo anno di pandemia. Stiamo inventando, come sempre è accaduto, ambienti particolari, separati, terapeutici, e secondo me, maledetti. Non mi riferisco a nessuna esperienza particolare. Desidero solo contestare il metodo “claustrale” già a suo tempo inventato per recuperare i ragazzi tossicodipendenti. Da noi arrivano già da tempo ragazzi, che gli specialisti chiamano “pazienti alienati”, immersi in storie, le più impensate o, sempre usando il vocabolario dei saggi, affetti da disturbi internalizzanti o esternalizzanti.
E io, Mazzi Antonio, da ignorante proibisco che vengano relegati in bunker o in strutture create ad hoc. Ricevo le telefonate, creo appuntamenti, ascolto tutto quello che mi raccontano. Seduti una poltrona di fronte all’altra, per una buona mezz’ora cerco di passare dalle urla, dai pianti, dalla disperazione, a quel minimo di tranquillità che permetta il dialogo. Poi chiamo uno tra gli educatori che reputo più adatto al caso. Lo mando con il “paziente” a fare un giro nel verde, mentre convinco la mamma o i genitori (raramente) che dobbiamo, insieme, affrontare la sofferenza di un ragazzo che in minima parte è anche malattia. Se arrivo a questi livelli, cerco e trovo un posto tra le molte mie realtà. Se per il genitore è solo un figlio malato, saluto genitore e figlio. Noi non abbiamo mai pensato, in quasi cinquant’anni di attività, di inchiodare comodini, di attaccare telecamere su tutti gli angoli o di alzare inferiate sulle finestre. Non abbiamo anteposto le malattie e tanto meno orientato gli interventi in chiave esclusivamente terapeutica. Per noi è dall’educazione che dobbiamo partire e a cui dobbiamo arrivare.
Non esistono gli autistici, i bipolari, gli schizofrenici, gli anoressici, gli psicotici, i violenti aggressivi, ma esistono degli adolescenti e dei giovani con problemi. Nelle equipe che vivono con loro c’è l’educatore, lo psicologo, il musicista, il maestro di danza e insegnanti vari. Settimanalmente viene il medico o lo psichiatra e, sempre nel più normale dei modi (senza camici bianchi e studi medici), chiacchierano, vedono, incontrano e poi ne discutono con il gruppo degli educatori nei momenti di formazione permanente o, come diciamo noi, nei momenti “della parola”.
Mi rifiuto (salvo casi gravissimi) di catalogare i ragazzi che chiedono aiuto, come ci siamo sempre rifiutati di etichettare chiunque. Tutti conoscono i casi che sono passati nelle mie comunità, compresi i terroristi pentiti o dissociati (in questi giorni tornati di moda). Ci bastano i nomi, talvolta nemmeno i cognomi.
Ho seguito gente che ha ammazzato madri, padri, fratelli, che hanno tentato il suicidio più volte, spacciatori milionari, ragazzi e ragazze che si sono tagliuzzati fin dove non riusciamo ad immaginare, ragazzi e ragazze che hanno fatto di tutto e di più.
Ne abbiamo salvati parecchi, talvolta con qualche farmaco (non li abbiamo salvati tutti per non far concorrenza al padreterno o a qualche clinica superlativa milanese o romana). Come li abbiamo salvati? Primo perché non li abbiamo emarginati, ma li abbiamo seguiti, in modo ben preciso nel gruppo normale; secondo perché il lavoro più impegnativo e strategico lo facciamo preparando il gruppo dei compagni all’accoglienza. Chiunque arriva, due minuti dopo, è lì da secoli.
I compagni, sensibilizzati, sono i medici e gli infermieri migliori. E mentre noi educatori abbiamo bisogno di incontri singoli, bilaterali, con uno o più specialisti, i compagni, in pochi minuti, (parlando da prete), li hanno battezzati e cresimati.
Arrivato a questo punto di riflessione, so di aver creato dissenso e divisione in molti, però, testa bastarda come sempre ho fatto e sto facendo, vorrei fermare tutti quei Signori, non so se spaventati o interessati, che stanno inventando nuovi luoghi magici.
Prepariamo educatori, troviamo località e strutture belle, famigliari, toniche, nel verde, con tanta musica e tanta amicizia.
Ho appena comprato l’ultimo libro dell’amico Vito Mancuso, dal titolo “A proposito del senso della vita”. Vado alle ultime pagine, perché suggeriscono alcuni piccoli passi quotidiani, verso la costruzione del senso della vita. Tutti abbiamo perso il senso della vita, ed è per questo che i nostri figli si stanno distruggendo.
“Se il senso viene dal consenso, il consenso bisogna costruirlo giorno dopo giorno, mediante la politica dei piccoli gesti che conducono la nostra coscienza a capire e ad amare sempre più la logica profonda della vita, con la misteriosa e insieme dolorosa poesia”.
E qui Vito va giù con tre pagine di buone pratiche. Io, non sono filosofo e vi cito solo qualche riga (con piccoli ritocchi). “Constatare la bruttezza, ma non farsene ferire: il sentimento non diventi mai risentimento. Accogliere anche le situazioni brutte del mondo e disporle accanto alle proprie situazioni brutte. In ogni occasione, anche la più scabrosa, ricercare la poca bellezza rimasta. Curare il linguaggio, evitare la violenza e favorire l’armonia, amare la natura. Ricordarsi sempre che la bellezza è la via della salvezza”.
Se queste buone pratiche le avessi dette io, i soloni avrebbero sorriso sornionamente, come fecero negli anni settanta-ottanta quando ho affrontato alla mia maniera l’inferno del Parco Lambro. Allora le buone pratiche me le ha benedette Vittorino Andreoli, contro tutti. Oggi, per fortuna, me le dice Vito Mancuso. E mentre lui me le suggerisce, noi già le facciamo, non con i ragazzi dell’oratorio, ma con quelli “appesi ad un filo”. Sono queste le vere medicine e le vere terapie.
don Antonio Mazzi su “Corriere della Sera – Opinioni” del 13/05/2021