C’E’ STRADA DA FARE

25/03/2022


37 anni fa, in un tempo troppo distante dal 2022, con problemi anni luce diversi da quelli odierni, la mattina del 25 marzo nel cortile di una scuola professionale nella periferia di Milano a ridosso del Parco Lambro, partiva la prima carovana di Exodus.

Esperienza mezza folle e mezza geniale con una ventina tra giovani tossicodipendenti e educatori in viaggio per nove mesi per tutta Italia, che inizialmente scosse e poco alla volta segnò decisamente il modo di intendere i servizi e i percorsi di recupero delle dipendenze. Oltre che cambiare la vita dei ragazzi e delle ragazze protagonisti della storia.

Questa memoria, con le circostanze che l’hanno generata e con le conseguenze che ne sono derivate, è per me vitale oggi, immerso come sono in un orizzonte alieno rispetto a quello di allora. La memoria non serve a scandagliare il passato per illuminare misfatti o glorie nascosti, ma per farci continuare il viaggio: la terra promessa è ancora davanti.

Vedo così una traccia di senso nella nostra storia lontana e mi pare di poterla seguire quale direzione per i prossimi passi.

Sarà forse per la natura stessa della primavera che spinge inesorabilmente ad uscire, sarà per la stanchezza accumulata in due lunghi anni di Covid e ancora di più in questi giorni per l’oppressione, l’incertezza e la rabbia piovuteci addosso davanti a questa assurda guerra alle porte di casa, sarà, il fatto è che avverto molto prepotente un desiderio di libertà.

Sento di aver bisogno di aria pulita, sento che l’enorme massa di chiacchere e di controchiacchiere, sul virus prima e sui bombardamenti adesso, non mi aiutano a capire fino in fondo e che anzi poi giustificano il mio stare alla finestra, col dito urlante puntato sul colpevole di turno. Ma resto immobile, impietrito. Anche tanti anni fa eravamo angosciati e schiacciati dal terrore, in quei primi anni ottanta. Su due fronti: la droga che mieteva morti colpendo i giovanissimi e il terrorismo, nemico invisibile e feroce, che mirava a sovvertire le regole e lo stato.

Ecco, ricordo che allora la nostra azione si mosse su un doppio livello: una fortissima attenzione educativa per i ragazzi, fatta di esperienze concrete e belle, accompagnata però anche da una provocatoria prospettiva di cambiamento del contesto da cui provenivano. Dicevamo: certo serve offrire valide occasioni di riscatto per gli adolescenti alla deriva, ma non basta. Bisogna interrogare l’ambiente che ha generato il problema, la qualità dei rapporti tra le persone, il quartiere, la città, la scuola, il lavoro, il modello di consumo, la retorica della comunicazione. E modificare pure quello, per evitare guai peggiori.

Perciò mi domando, va bene, l’urgenza è adesso quella di accogliere chi scappa e fermare la guerra, ma non è che c’è per caso bisogno di metter mano a un qualche meccanismo che sta sotto la superficie delle trasmissioni televisive? Sia a livello personale che collettivo?

Franco Taverna, Responsabile Exodus Area Povertà educativa