Il villaggio dei ragazzi perduti è un’isola nell’isola, povera e poetica come l’Itaca di Kavafis, un luogo dove il viaggio non finisce ma ricomincia dentro le vite che altrove hanno scartato. Suonano alla porta giovani che sperano di essere sottratti alla strada distruttiva della droga, sedicenni fragili e disperati in conflitto coi genitori, poveri di affetti, smarriti, sfiduciati, prigionieri di sostanze che lasciano voragini enormi, un vuoto che si fatica a riempire. È un sentiero stretto quello che porta alla Mammoletta, c’è il mare sullo sfondo e il profumo dell’Elba, la terra è secca e c’è un orto coltivato con le querce e i lecci che fanno ombra alle casette.
Forza buona
Marta e Stanislao stanno lì da tredici anni, accolgono, aiutano, sostengono chi ha bisogno di un appiglio per non cadere, per non lasciarsi andare, per non sentirsi più dire di essere uno «zero meno», inutile a se stesso e al mondo. Lei è dolce e premurosa, lui è solido e protettivo, insieme sono la forza buona che aiuta decine di ragazzi in cerca di senso a riprendersi uno spazio e un ruolo: dagli anni Novanta sono il motore dell’operazione salvataggio di Exodus, la carovana di don Antonio Mazzi che raccoglie i bisogni di chi soffre, alimentando quella che il pretaccio degli ultimi ha definito «una tremenda voglia di vivere».
Marta e Stani, come li chiamano qui, fanno coppia da cinquant’anni. Vita da film per entrambi. Folgorazioni precoci: i campi di lavoro e le comuni del ’68. «Cercavamo cose buone e giuste legate alla politica e all’impegno sociale». Scienze politiche a Pisa, cortei e occupazioni, l’eco di don Milani e della scuola di Barbiana, il mondo diviso tra diseredati e privilegiati fino alla scelta, che coincide con una visione ideale: combattere il consumismo e lo spreco, i bisogni indotti e il capitalismo rapace. Stanislao ha 73 anni e una faccia da marinaio dei romanzi di Conrad: ha vissuto in Africa «negli spazi infiniti a contatto con la natura e l’ambiente» al seguito del padre militare, ha studiato al Cairo dove c’era lo zio ambasciatore, infine è tornato a Firenze carico di entusiasmi e di sogni avventurosi. Marta è figlia della borghesia toscana, la madre dama della San Vincenzo la voleva meno alternativa e più integrata: ha attraversato i tempi dell’utopia hippy e dei figli dei fiori quando Joan Baez cantava We Shall Overcame. Con Stani ha diviso tutto: studiavano insieme quando hanno fondato la prima cooperativa giovanile nelle terre occupate del Mugello. «All’università i nostri compagni pensavano a combattere il sistema, ma noi cercavamo di costruirne un altro, basato sulla condivisione dei beni».
L’isola d’Elba è un destino, il luogo dove i sogni diventano progetti: si innamorano del posto e nasce una nuova comunità dove si coltiva la terra nel rispetto dei precetti steineriani, biologico e biodinamico. Ma la strada è in salita, i costi si mangiano i guadagni, Stani deve fare l’autista per coprire le spese, Marta coltiva l’orto e pascola le pecore. Nei ritagli lei si batte con l’Udi per l’emancipazione della donna, lui fa l’attivista di Greenpeace contro la pesca a strascico nell’isola. Sempre insieme, sempre in cerca di una missione da compiere e di qualcuno da salvare. Non poteva che finire così: con don Mazzi che la missione gliela offre davvero. «Abbiamo scoperto di avere gli stessi ideali, al di fuori delle istituzioni, al di fuori della politica, al di fuori della società ufficiale». Arruolati nel progetto Exodus: fare qualcosa per gli altri, dare una mano a chi sta annegando nelle dipendenze o nelle angosce della vita.
Vanno a Lacona, intorno a Capoliveri. Ricostruiscono un’azienda agricola. Ne fanno un agriturismo di successo. Nasce la comunità di recupero. Lo schema è semplice: rispetto, sinergie, solidarietà. Il valore aggiunto è la vela, dove Stani è maestro e istruttore. «La barca è un momento educativo, si fa squadra, ci si aiuta, in mare aperto si superano anche gli ostacoli della disabilità». Sembra fatta, ma uno sfratto e una vertenza giudiziaria azzerano tutto. Marta e Stani se ne devono andare, a sessant’anni rifanno le valigie, ripartono da zero. «Siamo finiti alla Mammoletta grazie a don Mazzi che ha avuto in concessione dal Comune di Portoferraio un terreno da destinare a scopi sociali».
L’essenziale
È il 2008. La Mammoletta è un bosco incolto, un luogo da inventare. «Comincia un’esperienza magica e toccante in grado di offrire a chiunque l’occasione di raccogliersi e di camminarsi dentro, di spogliarsi di certe maschere e riscoprire l’essenziale», si legge nel diario del Centro, firmato Sonia. «Offriamo quel che sappiamo fare: accoglienza e amore», dice Marta. Nessuna terapia o metodi specifici per curare le dipendenze. «Cerchiamo di costruire relazioni vere per dare un senso alle cose. Insegniamo ai ragazzi a perdonare gli errori degli adulti. A riprendere il filo dei rapporti interrotti». Non è la droga il vero problema, aggiunge Stani. «Siamo davanti a una tragedia relazionale, l’emergenza è il vuoto lasciato dalla mancanza di affetto e attenzione, dalla famiglia che non c’è». Marta allarga le braccia, vorrebbe prendersi cura delle ferite di tutti. «Chi viene qui chiede cose essenziali, quelle che riempiono il cuore e la vita».
Decine, poi centinaia di ragazzi, hanno sperimentato il valore della relazione che cura. Stani li porta in barca. Il suo sedici metri, Bamboo, ha stemperato tensioni e solitudini. «Il mare è un momento educativo, ma per continuare a farlo abbiamo bisogno di mecenati, di sostegni. Senza aiuti non ce lo possiamo permettere…». Ogni giorno Marta nasconde la fatica dietro un sorriso. Un giovane la guarda e sbotta: «Io non vi capisco, più vi tratto male e più mi aprite le braccia. Più vi combatto e più voi dite di volermi bene…». È questa l’utopia concreta della Mammoletta, un sogno condiviso che per i ragazzi perduti è una grande speranza.
di Giangiacomo Schiavi su “Buone Notizie – Corriere della Sera”