IL PONTE TRA INFANZIA E ADOLESCENZA

20/10/2022


Purtroppo quanto sta succedendo tra i “branchi” ha una delle tante spiegazioni: il travisamento dell’amicizia. Gli adolescenti non possono vivere, se sono normali, senza amici. Dopo i dieci anni dovrebbero scoprire un secondo modo di vivere con il passaggio dalle mura di casa, dalla forte relazione tra genitori e fratelli, agli amici, alla strada, alla piazza, al bar, allo sport. Purtroppo il lookdown, la società evaporata, le incrostazioni sociali, hanno disorientato il periodo fragile dieci-quattordici anni, che si è manifestato nel più distorto dei modi.

Il ponte che porta dall’infanzia alla prima adolescenza, anziché incuriosire i sensi, e allargare le conoscenze, ha trovato più comodo trasformare i giochetti infantili in casini (come loro dicono). Peccato che con i fatti di questi ultimi periodi, i casini siano diventati follie, fobie, violenze e bullismi.

Potrebbe accadere (è una mia domanda) che queste esplosioni “macabre” siano la scusa dell’essersi chiusi nel guscio delle loro nevrosi e delle evaporazioni ostinate, a scavalco tra il loro mondo e l’altro visto come nemico? Chi possiede tanto corpo, poco cervello e niente cuore, può solo fare quello che ogni giorno vediamo e leggiamo.

Passare il ponte come dice Peter Riccardo tra l’ominizazzione e la umanizzazione, conservando in noi e negli altri un brandello di coscienza della diversità, equivale scegliere le cose che fino a ieri erano quasi tutti giochi. E scegliere significa accettare, cercare, intuire, affinché avvenga il passaggio. L’accettazione di se stesso costituisce l’uomo come essere umano. La traversata dall’ominizzazione all’umanizzazione è diventata l’anelito ineludibile del viaggio stesso.

Durante il passaggio sul ponte dovremmo incominciare a capire cos’è che costituisce l’uomo come essere umano. L’autoaccettazione è l’indicatore di quanto abbiamo di umano. Tuttavia la stessa autoaccettazione non può esimersi dall’accettazione degli altri, perché non si può concepire l’essere se stessi senza l’essere degli altri.

Forse do alla parola umano un significato troppo profondo e troppo esauriente. Cioè il ponte non dovrebbe fermarsi ai quattordici anni, ma almeno alla maturità. Perché capire “l’umano” vuol dire prendere coscienza della debolezza del nostro “vivere”. Scegliere l’umano comporta la comprensione per la fragilità della vita, per la confusione che si incrocia dentro di noi con valori e disvalori; armonie e disarmonie; antipatie e simpatie; amore e odio.

Le ultime due parole, pensarle già masticate a diciotto anni è volere troppo, ma le radici ce le sentiamo già sufficientemente chiare. Ci sono infiniti altri valori che emergono sul ponte: valori religiosi, laici, solidali, civili, autentici che sono necessari per l’attuazione umana. Poiché, però, ci portiamo dentro, come dicono, alcuni Caino e Abele, è anche vero che le parole violenza, cattiveria, vendetta, odio, animalità provocano la guerra dentro e fuori di noi con violenze, acredini, difficili prima da capire e ancora più difficili da vincere e da trasformare. Questi “branchi” dei quali noi riempiamo televisioni, giornali, e galere, sono molto più facili da giudicare e da punire, invece che aiutarli a capirsi e ad equilibrarsi.

È urgente che parliamo meno di queste ragazzate (lasciatemele chiamare così anche se non sono certamente ragazzate) e che facciamo vedere in fondo e durante il viaggio sul ponte scene meno selvatiche e bullesche. Perché non è vero che i “branchi” siano così numerosi e “fuori di testa”.

Ci sono giovani che consumano le loro ore per l’arte, la ricerca scientifica, la solidarietà, la musica, l’introspezione e la spiritualità, sempre sullo stesso ponte. E questi non solo hanno capito cosa significa essere umani, ma anche la meraviglia e le cose straordinarie che si portano dentro, capaci di trasformare l’etica del limite in ricchezza personale. Perché è proprio la coscienza del nostro limite che scatena la voglia di ricerca, di meditazione, di creatività. Perché quello che noi chiamiamo limite dentro contiene il mondo.

E se ci svegliano un‘ora prima la mattina, non per questo moriremo prima, ma forse troveremo un modo migliore per vivere la giornata e per trovare dentro di noi qualcosa che non avevamo ancora trovato. Se invece fossimo capaci, la sera, di tornare un’ora prima, saremo ancora più “umani”.

Il "Progetto SOS Adolescenti” di Fondazione Exodus

di don Antonio Mazzi su “Corriere della Sera”