Il male c’è sempre stato e non credo che ieri fosse meno presente di oggi. Ho vissuto la guerra, il terrorismo, il cimitero del Parco Lambro causato dalla droga, l’impossibilità di uscire di sera, eppure mai come oggi pare che la presenza del male sia così potente.
Cito Susanna Tamaro che ha scritto sul Corriere della Sera: “Nel mondo la presenza attiva del male esiste, basta aprire qualsiasi notiziario per esserne consapevoli e questo male può agire come un tarlo dentro di noi, lavorando silenziosamente, logorando la struttura oppure può esplodere con il fragore di un grande petardo, accecando e facendo compiere atti di cui mai ci si sarebbe creduti capaci”.
Ci stiamo abituando alla negatività
Lasciate che vi dica che non voglio lasciarmi trascinare da questa camminata cimiteriale. Sarei più disposto ad accettare le riflessioni dello psichiatra Mencacci che rispondendo ad un giornalista ci dice: “I social amplificano i sentimenti più negativi: rabbia, odi, discriminazione.
Questa continua sovrapposizione tra reale e virtuale genera nei ragazzi confusione, aumenta l’impulsività e favorisce la desensibilizzazione verso qualcosa che dovrebbe farci orrore, abituandoci “al male”. Dobbiamo riscoprire la magia di stare insieme dal vivo e impegnarci per difendere il nostro “essere umani”. Questa sarà una delle grandi sfide della nostra società digitale”.
Una proposta valida
Una proposta che mi ha particolarmente interessato viene dallo psicologo americano Jonathan Haidt. Haidt invita tutta la famiglia per una cena settimanale preparata dai figli, quasi fosse un momento religioso, co qualche addobbo sopra o sotto alla tavola. Mi ha convinto perché è la più semplice e perché l’avevo usata per un caso che ci era arrivato tempo fa in comunità.
Il ragazzo aveva ammazzato il padre. Terminati i suoi anni di carcere, era venuto da noi per finire la pena, in alternativa, come accade spesso. Aveva una terapia psichiatrica con le solite ricette e doveva andare ogni tanto “a colloquio”. Aveva però un atteggiamento che non ci piaceva: il suo silenzio. Preferiva stare solo e per parlare dovevamo sempre provocarlo. E fu allora che proposi una idea, come spesso è accaduto nella mia vita, per i casi “unici”.
A mezzogiorno mangio sempre con i ragazzi. Me lo sono messo davanti. Arrivava con il piatto pieno, troppo pieno, perché mangiava tanto. Mangiava, meglio strafogava, e poi se ne andava. Non aveva tempo per parlare. Fu così per mesi. Poi, qualche sorriso tra un boccone e l’altro, poi un “buon appetito” e finalmente: “Ho capito! Guarda, però, che se hai vinto tu, è perché ho mollato io!”.
E io, da finto “ignorante”: “Cioè?” Da quel giorno ha incominciato a parlare e a mangiare in modo dignitoso, e ce l’ho davanti tutti i giorni a pranzo, come ho attorno gli altri.
Mangiare insieme può valere più di un colloquio con lo psichiatra? La domanda la faccio a me e a tutti quelli che in questi giorni stanno scrivendo sui giornali per il caso di Riccardo. Lo psicologo americano invita tutta la famiglia per una cena particolare, preparata dai figli, quasi fosse un momento religioso, con qualche addobbo sopra o attorno alla tavola.
Don Antonio Mazzi – Oggi n.37