Per un momento sembra di essere tornati indietro di pochi di anni, quando la scuola è stata chiusa per i vari lockdown. A parte il primo, in cui eravamo tutti a casa con le conseguenze che abbiamo molto raccontato e su cui abbiamo lungamente riflettuto, poi ci sono state le chiusure in cui la scuola ha avuto la possibilità di rimanere aperta per i ragazzi segnati da fragilità educative su più livelli. Anche questa esperienza è stata oggetto di lunghe riflessioni, non facili.
Qualcuno a suo tempo si era scandalizzato perché i divari –in questo modo- si erano amplificati: i bravi a casa e gli altri, gli stranieri, i BES o gli “H”, o quanti altri rientrassero nella categoria “fragile”, a scuola. Corridoi deserti, aule semivuote, ma loro seduti ai loro banchi, felici di esserci in uno spazio solo per loro: si sono sentiti tra i privilegiati, non tra i fragili.
Quando la scuola è stata riaperta per tutti è stato in qualche modo ritrovato lo spazio dell’integrazione, che ha lasciato però in sospeso la domanda, in loro e in noi, perché è prevalsa la nostalgia per quelle mattinate coi banchi in cerchio, a trasformare la storia in un racconto che non finiva mai, o in cortile a studiare cos’è una leva e una parabola giocando a basket. E soprattutto chiacchiere a non finire, e la campanella che quando suonava lasciava tutti sbigottiti perché il tempo sembrava volato via.
Questa riflessione ci ha accompagnato a lungo e ancora continua ad inseguirci, forse quasi a “tormentarci”, con quella domanda quasi ossessiva che sentiamo ogni volta che mettiamo piede in una classe: “usciamo”? Cioè, andiamo a studiare da soli da qualche parte?
Così è successo in questi giorni quando le classi terze sono andate in gita, ma non tutti. Quelli che non potevano pagarla, quelli che non sarebbero mai riusciti a stare via tre giorni anche perché non hanno mai legato coi compagni, quelli a cui non è stato permesso a causa di gravi difficoltà comportamentali. Per intenderci molti dei “nostri”. Conseguenza scontata era che sarebbero rimasti a casa a godersi un’assenza quasi giustificata. E invece no, c’erano, anche quelli che di solito a scuola ci vengono poco.
Per un momento il tempo si è azzerato, coi banchi di nuovo in cerchio, il tempo che correva, qualche momento a giocare in cortile, la voglia di parlare e di ridere, lo studio più rallentato, la voglia di mettere mano agli elaborati d’esame lasciando più spazio possibile alla fantasia, alle capacità di comprensione reali, e infine la frase sconcertante “ma questa gita non può durare di più”?
Diciamo che questo lunedì e questa ripresa della normalità è stata dura anche per noi. Noi che sappiamo fin troppo bene che i contenitori sono importanti quanto i contenuti, e non siamo così ingenui da pensare che la scuola sia fatta di chiacchere, giochi in cortile e fantasia, anche se questi sono tre ingredienti imprescindibili per l’apprendimento e per la vita.
E di nuovo tornano a noi le domande sul significato di integrazione, di uguaglianza, di equità, di opportunità. E di nuovo continuiamo a cercare quelle risposte inafferrabili che si spostano sempre un po’ più in là col nostro procedere in avanti.
Barbara Invernizzi – Polo di Assisi Area Adolescenza e Povertà Educativa