«Esattamente il 25 marzo di quarant’anni fa partiva la nostra prima Carovana. Abbiamo girato l’Italia per nove mesi a bordo di un camper e tante biciclette, con ragazzi che avevano storie difficilissime. In viaggio ricevevamo ospitalità e ci rendevamo utili: così è nata Exodus. Quattro anni dopo, nel 1989, abbiamo conquistato la nostra prima sede, nel mezzo del parco Lambro a Milano. Ora rischiamo di doverla lasciare, ma per noi significa storia. E, cosa ancora più grave, non abbiamo un’alternativa». A parlare è don Antonio Mazzi, 95 anni, presidente di Fondazione Exodus.
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«Cascina Molino Torrette è di proprietà del Comune di Milano che ce l’ha assegnata con convenzione rinnovata da poco. Ma per restare dovremmo sostenere a nostre spese lavori di adeguamento che non ci possiamo permettere. Le istituzioni dovrebbero prendersi le loro responsabilità e rendere prioritarie e veloci le grandi opere che servono per rendere l’area sicura».
Lei è arrivato molto giovane a Milano.
«Ho perso mio papà quando avevo un anno, a Verona sono cresciuto con mia mamma e mio fratello. Dai preti ci sono andato per riuscire a studiare almeno fino al liceo. Molto tempo dopo mi hanno detto: vai a Milano, c’è una situazione terribile nel parco Lambro. Io sono andato, incosciente. Siringhe ovunque, tossicodipendenti che si aggiravano come zombie. Abbiamo sempre tenuto aperta la nostra comunità ai ragazzi, notte e giorno. Altro che questa nuova mania di recintare i parchi».
Exodus compie oggi 40 anni: come si sente?
«Guardo avanti, ai prossimi 40. Mi sento padre, più che prete, e ho due sogni: che gli adulti finalmente crescano; e che i giovani imparino a vivere, e poi ce lo insegnino».
Partiamo dagli adulti.
«Educatori e insegnanti devono smetterla di dare regole. Devono ascoltare, capire le storie per mettersi in relazione. Servono umiltà, intuizione, intelligenza. Non sanno trasmettere il gusto della fatica, non sanno dire né “no” né “sì”. Proteggono i giovani da ogni frustrazione rendendoli fragili e incapaci di reagire. Sono i primi a sentirsi a disagio di fronte ai ragazzi, anello debole di una catena che non fa più il suo mestiere».
Come sono oggi questi ragazzi?
«Intorno a loro c’è una aggressività preoccupante. Come può un tredicenne provare ad ammazzare il padre o una compagna di scuola? Succede quello che una volta pareva indicibile. Quando sbagliano capiscono la gravità del gesto ma non ne colgono l’essenza, la sostanza. A loro e agli adulti che li educano non è chiaro il valore della vita, dell’amore, della solidarietà».
Che senso hanno le Carovane di Exodus?
«I ragazzi dentro alle comunità si sentono morire. Hanno bisogno dell’avventura nel senso etimologico del termine: ad-ventura, andare incontro a quello che può succedere e non è ancora successo. Li tiene in vita la sorpresa: le nostre Carovane, gruppi che partono in viaggio e tappa dopo tappa acquistano nuovi strumenti di crescita e relazione, servono a questo».
Festeggiate il «compleanno» di Exodus con un podcast e con una Carovana speciale.
«La prima puntata del podcast “Padre vostro” è on air oggi mentre la “Carovana del 40” parte a fine maggio. Per quattro mesi i ragazzi viaggeranno da una realtà Exodus all’altra, cominciando da quella in Madagascar. Lì incontreranno anche i ragazzi che erano arrivati al parco Lambro per storie di droga e sofferenza molto pesanti: oggi lavorano per noi come educatori».
Lei ha 95 anni, quali risposte cerca, ancora?
«Quelle che sono responsabilità di tutti: con la scuola che deve cambiare, cosa facciamo? Con il grande tema dell’affettività che fa acqua, cosa facciamo? Ipm (carceri minorili) e comunità tradizionali non servono. Possono essere forse, al massimo, una breve tappa del viaggio che è l’educazione».
Cosa sogna in questo momento?
«Due gambe nuove in regalo. Porterei dei giovani con me lungo il cammino di Santiago. Saremmo pellegrini, saremmo la grande bellezza»
Cosa sogna in questo momento?
Elisabetta Andreis – Corriere della Sera – 25/03/2025